LIA DEL VENERE per la mostra personale'  FLUID TALES' Museo Pino Pascali 2014

Tra il ‘qui’ e l’‘altrove’

“Ciascuno di noi – scriveva nel 1998 Amin Malouf in L’identità (Bompiani, Milano 1999) – dovrebbe essere incoraggiato ad assumere la propria diversità, a concepire la propria identità come la somma delle sue diverse appartenenze, invece di confonderla con una sola, eretta ad appartenenza suprema e a strumento di esclusione, talvolta a strumento di guerra”. E’ necessario, dunque, nel mondo contemporaneo ridefinire il concetto di identità, adeguandolo alle nuove realtà con le quali ogni individuo deve necessariamente confrontarsi, in particolare quando decide di  posizionarsi in contesti diversi da quello di origine. 

Gli artisti, prima e meglio di tutti, colgono i segnali delle trasformazioni in atto e – attraverso un dislocamento non solo mentale ma sempre più spesso fisico – danno vita a narrazioni inedite, propongono scenari solo apparentemente improbabili, integrando la propria cultura con quella dei luoghi in cui si trovano a operare, elaborando punti di vista eccentrici e modalità linguistiche nuove.

Ciò accade quando gli artisti ‘migrano’ dai paesi extraeuropei in Occidente, ma oggi sempre più sovente anche in direzione opposta. Nei loro percorsi riformulano il proprio immaginario, desumendo strumenti espressivi dai luoghi in cui fissano temporaneamente o in via definitiva la propria dimora, innestando in una koinè linguistica ormai diffusa gli apporti legati a realtà territoriali, sociali, culturali lontane l’una dall’altra. All’interno del rapporto del ‘qui’ con l’ ‘altrove’, che contribuisce a dar vita a un nuovo concetto di identità necessariamente molteplice e pluriversa, in continuo, incontrollabile e imprevedibile trasformazione e alla costruzione di un mondo sempre più articolato e complesso, il tema della conservazione della memoria è di basilare importanza.

Dal lavoro di Virginia Ryan traspare un’attenzione all’’altrove’, esente da curiosità episodiche e superficiali. Il suo sguardo mira a porre in luce non ciò che divide un mondo dall’altro, non ciò che distingue una comunità dall’altra, non ciò che separa un individuo dall’altro, ma ciò che fa da significativo comune denominatore tra loro. 

Nell’installazione Surfacing, il suo interesse per le Mami Wata (dall’inglese Mammy Water), il cui culto è diffuso in alcune aree del continente africano e anche al di fuori di esso, pone in rilievo le numerose affinità tra loro e le sirene, creature ibride che si incontrano spesso nelle mitologie occidentali. Capaci di ammaliare gli umani con il proprio canto melodioso e di portarli alla perdizione, esse sono – da sempre e dappertutto – metafora dei pericoli della navigazione e insieme simbolo dell’archetipo del femminile. 

Di tutt’altro tenore è l’installazione I love you, con cui l’artista si fa amorevole custode della documentazione fotografica di frammenti di vita di singoli individui, offrendola al nostro sguardo come palpitante diario quotidiano di una comunità, quella di Gran Bassam, che rischia di perdere irrimediabilmente la memoria del suo recente passato a causa dell’affermarsi della fotografia digitale. 

Nell’uno e nell’altro caso, Ryan opera con discrezione come mediatrice tra mondi diversi, tra eredità del passato e indifferibili urgenze del presente, tra bisogno di preservare le radici e necessità di costruire scenari futuri.

L’’io’ – a guardar bene – non è molto diverso dall’’ altro’. E l’’altrove’ è ormai già ‘qui’.

Lara Caccia,Limen Art Prize,January 2012

Chiara Minieri. Progetto "I LOVE YOU' Napoli.2013

Mille fotografie per altrettante vite, dal cuore dell'Africa all'Italia, fino ad arrivare al mondo intero: Virginia Ryan, artista nata in Australia ma anche cittadina Italiana, racconta di gente che negli ultimi vent'anni ha vissuto la propria vita a Grande Bassam in Costa D'Avorio, città di mare africana un tempo Capitale coloniale ed ora patrimonio dell'Unesco, attraverso una moltitudine di immagini reperite nelle tantissime boutiques fotografiche sparse per la città, che a causa della fine della pellicola analogica e l'arrivo del digitale stanno chiudendo i battenti: fotografie di nascite, matrimoni, eventi importanti o semplici ricordi, che accumulate nei depositi dei negozi correvano il rischio di essere perdute, trascinando con sé la tradizione stessa della fotografia, da sempre elemento fondamentale del tessuto culturale africano. La Ryan ha dunque recuperato una parte imponente della storia della città senza alcuna censura o cernita: tutte le foto che rischiavano di essere bruciate o buttate via sono state acquistate dall'artista e messe insieme per restituire una visione completa e senza alcuna ombra di ciò che è accaduto a Grande Bassam dagli anni '90 al 2012: "non ho i negativi delle foto, - spiega l'artista - ciò che volevo era sostenere una tradizione importante, che rischiava il dimenticatoio. Ho voluto rendere un servizio a questo tipo di arte". La raccolta di immagini ha un titolo significativo "I love you", che è riportata anche su una delle foto che ho trovato. Volevo che il significato di questa installazione fosse trasversale, che invitasse gli italiani - in questo caso - alla riflessione su ciò che accomuna la loro vita a quella di persone appartenenti a culture diverse e lontanissime, come quelle di Grande Bassam. In Europa a volte sembra che il razzismo sta pericolosamente aumentando, e una mostra come questa è un tentativo in più di arginare l'ondata di ostilità nei confronti del cosidetto diverso" commenta ancora. L'istallazione è già stata presentata informalmente nello studio dell'artista a Grand Bassam suscitando profonda meraviglia e gioia nei visitatori, emozionati dal rivedere immagini che ritenevano scomparse e che nessuno avrebbe creduto così importanti per la storia della città così come per quella di ogni singolo cittadino. La Ryan ha infatti posto un forte accento sul concetto di memoria guardando contemporaneamente al cambiamento della società, alla sua evoluzione e a ciò che comporta. Il 12 settembre, negli spazi di 1 Opera a Napoli, l'istallazione a cura di Giuseppe Ruffo, Pietro Tatafiore e Mariano Ipri aprirà ai visitatori italiani strizzando l'occhio alla storia collettiva del 'bel paese' attraverso un allestimento singolare, fortemente voluto dall'artista, che rimanda ai legami tra un paese e l'altro, tra una persona e l'altra, stretti attraverso i viaggi e più nello specifico attraverso l'emigrazione: le immagini dondoleranno da lunghi fili tesi in orizzontale, come piccole bandiere, a ricordare l'antica tradizione dei migranti e dei loro parenti di tenere dei lunghi lacci di spago - ognuno ad un'estremità, dal porto e dalla nave in partenza - che simboleggiavano un legame forte, che il viaggio non avrebbe spezzato. Quando poi la nave lasciava il porto il filo di spago colorato restava sul pelo dell'acqua a galleggiare, formando insieme a tutti gli altri un gigantesco arcobaleno acquatico. La citazione da parte della Ryan in questo caso è di Jeffrey Eugenides, scrittore statunitense, che nel suo Middlesex racconta proprio di questo: ''It was the custom in those days for passengers leaving for....to bring balls of yarn on deck. Relatives on the pier held the loose ends.As the ....blew its horn and moved away from the dock,a few hundred strings of yarn stretched across the water.People shouted farewells,waved furiously,held up babies for last looks they wouldn't remember. Propellers churned:handkerchiefs fluttered,and up on deck,the balls of yarn began to spin. Red,yellow,blue,green,they untangled towards the pier,one revolution every ten seconds and faster as the boat picked up speed.Passengers held the yarn as long as possible,maintaining the connection to the faces disappearing onshore. But finally,one by one,the balls ran out.The strings of yarn flew free,rising on the breeze.....''.
Un ricordo che tra l'altro serba la stessa artista e che si avvicina molto alla storia della migrazione italiana, famosa in tutto il mondo, senza dimenticare la stessa Napoli per eccellenza, coi suoi panni stesi nei vicoli, simbolo di intimità familiare resa pubblica in strada. L'appuntamento è dunque per il 12 settembre 2013, dalle ore 18, a 1 Opera, palazzo Diomede Carafa nel centro storico di Napoli
 

Lara Caccia, 2012.Premio Limen

................Ma quale mondo? La curiosità e il bisogno di conoscere le radici culturali e storiche dei popoli, soprattutto di quelli dell?Africa Occidentale che ha conosciuto nei suoi numerosi viaggi, è da sempre la prerogativa di Virginia Ryan, artista nomade, che si avvicina al loro linguaggio non attraverso la mimesis, o attraverso lo sguardo della ''razza bianca?, ma ascoltando gli umori ed osservando gli sguardi e i gesti di chi la circonda, interagendo con la popolazione che a volte diventa partecipe nella costruzione dell?opera. Sulla superficie quasi tridimensionale delle pitture materiche Topographies of the Dark che sconfinano quasi nella scultura, sono state poste delle ciabatte infradito, completamente aperte e irriconoscibili, inglobate in un impasto di bitume ed altre sostanze nere. La capacità dell?artista di nobilitare i materiali di scarto o dismessi, in questo caso passa in secondo piano, e le ciabatte trovate abbandonate sulle coste africane sembrano fuoriuscire da una marea nera, da una macchia di petrolio: una macchia nera che ha travolto tutto, anche la storia oltre che la natura. L?opera rientra in quel bisogno di documentazione o di soluzione del dualismo inevitabile tra il bene e il male, tra il bianco e il nero, dove i confini dei due non sono così netti come ha voluto dimostrarci la cultura predominante del mondo occidentale.

Achille Bonito Oliva

'Le Opere e i Giorni'Catalogo SKIRA 2007

Exhibition Certosa Di Padula 2004

Allontanatasi dall'indimenticata terra d'origine nei primi anni ottanta, Virginia Ryan si muove con curiosit' e devozione attraverso spazi e realta' culturali molto diversi - dall'Italia all'Egitto, dal Brasile alla Scozia , costruendo una fitta rete di collaborazioni e amicizie che segnano il suo percorso nomadico di artista, scrittrice, terapista che proprio nello sradicamento, nella ricerca inesausta di una patria spirituale ha individuato la sorgente profonda della propria pratica creativa.

Dal 1996 in Italia, a Trevi, dove tiene numerosi workshop, mostre e laboratori con artisti e studenti di ogni nazionalita', Ryan utilizza tecniche e linguaggi antichi e modernissimi per un'indagine che recentemente fermato la sua attenzione sulla realta', straordinaria ed inquieta, dell'Africa Occidentale. Grazie alla ricchezza e all'esuberanza delle sue immagini e delle sue scritture, Virginia Ryan, che attualmente vive e lavora tra l'Italia ed il Ghana, ha infatti costruito un singolare lavoro di ricognizione sulla vita, la storia e la natura del Paese africano, dove ha, tra l'altro, realizzato un'imponente installazione esposta al Museo Nazionale di Accra (Landing in Accra, 2002). Di quest'impresa, coraggiosa e destinata a continue scoperte ed invenzioni, sono traccia significativa le trenta fotografie che declinano nella Certosa lo splendore effimero di una tradizione (quella tutta occidentale della Vanitas) che si confronta con i colori e lo sfarzo delle mitiche terre dell'Africa nera. Sono trenta ritratti a mezzo busto di figure maschili, abitanti del Ghana ricoperti d?oro, una sorta di sfavillante pantheon di divinit? della terra e della luce - Living go(l)d, appunto - le cui icone sono rese ancora pi? straordinarie dalle cornici dorate, anch?esse provenienti dal Paese africano. Un lavoro, questo della Ryan, che incrocia dunque artigianato e tecnologia per restituire nella sua inesauribile bellezza e la necessit? del meticciato: I frutti puri, ci ricorda Whitman, impazziscono.

L?IDENTIT? NOMADICA DI VIRGINIA RYAN

EMIDIO DE ALBENTIIS

TITOLO MAGAZINE N.52,SPRING,2007,ITALY

Forse l?arte non ? nata per suggerire risposte, per offrire certezze e ancoraggi su cui erigere costruzioni forti come bastioni: l?arte, pi? probabilmente, nasce per porre delle domande, per spingere a una continua interrogazione su se stessi e sul mondo che ci circonda. Ci?, naturalmente, non vale solo per il pubblico dei fruitori delle opere, ma anche, e forse soprattutto, per gli stessi artisti, la cui pi? autentica scommessa consiste probabilmente nella costante disponibilit?, ad un tempo faticosa ed entusiasmante, a mettere ogni volta in gioco i propri equilibri e le proprie convinzioni: non ci saranno mai conquiste definitive, spiegazioni esaustive, perch? ? fatalmente ? continueranno a mutare le prospettive e i punti di vista con cui interrogheremo l?esistenza, in un percorso di ricerca senza fine metaforicamente sospeso tra il generoso ardimento di Ulisse e l?ineluttabile castigo di Sisifo.

Questa peculiare condizione nomadica ed interrogativa mi ? parsa emergere con particolare pregnanza nelle ultime, intense ricerche di un?artista di indubbia singolarit?, Virginia Ryan. Australiana di nascita (Victoria, 1956), consorte di un diplomatico italiano, ha trascorso lunghi periodi della sua vita, proprio grazie agli incarichi di lavoro del marito, in diverse nazioni europee ed extraeuropee: va detto subito che il suo status socialmente privilegiato non ha mai condotto la Ryan a una condizione di ovattata separatezza dai contesti in cui, via via, si ? trovata a vivere e ad operare. Animata da una profonda passione civile ed intellettuale, nonch? da un?inesausta volont? di registrare con il linguaggio delle arti visive il diario delle sue variegate esperienze, si ? costantemente prefissa l?obiettivo di riuscire a penetrare, per quanto possibile, nelle dinamiche socio-culturali e, soprattutto, nelle problematiche identitarie delle genti incontrate nel suo cammino di donna e di artista: la sua poetica ha conseguentemente conosciuto un sempre maggiore allargamento di orizzonti che hanno comportato una grande versatilit? tecnico-espressiva, con una pluralit? e una mescolanza di ricerche linguistico-formali comprese tra la pittura, la scultura, l?installazione d?ambiente, la fotografia, il video fino a sconfinare nella letteratura. Un eclettismo di carattere quasi migratorio, nemico di ogni rassicurante stanzialit?, indizio non soltanto di un?inquietudine spirituale di cui riparleremo pi? avanti, ma di un?esigenza di accumulazione, quasi compulsiva, che ha come esito un intenzionale barocchismo in cui, coerentemente alla propria ispirazione, non ci pu? essere posto per una sintesi segnica di tipo minimalista.

Da quasi cinque anni Virginia Ryan ha intessuto un rapporto molto attento e partecipato con il Ghana, uno degli stati dell?Africa occidentale affacciati sull?Atlantico: tra le esperienze recenti scaturite da tale specifica relazione, innervata da un approccio che ben pu? definirsi antropologico (avente peraltro come oggetto di indagine anche il proprio S? e non soltanto la realt? altra della societ? e della cultura ghanese), si segnala un work in progress, Exposures, durato alcuni anni di lavoro. L?idea ispiratrice di questa serie di scatti fotografici ? racchiusa in una riflessione sulla percezione: non si tratta, infatti, di un reportage compiuto da Virginia a caccia dell?esotismo e della diversit? che, agli occhi della cultura bianca (cui apparteniamo e a cui lei stessa appartiene), caratterizzerebbero la societ? africana. Semmai ? l?esatto contrario: ? l?artista che, proprio in virt? della sua diversit? in mezzo agli uomini e alle donne del Ghana, si fa fotografare nel contesto di quel particolare mondo, cercando di cogliere ? obiettivo tutt?altro che semplice ? le modalit? di percezione che gli Africani hanno di una donna bianca e bionda che vive nella loro quotidianit?. Ed ? proprio il suo essere di pelle bianca a offrire all?artista la sensazione di una inversione percettiva: ? tra quelle persone di colore (proprio quel carattere somatico che per gli occidentali ? valso per secoli quale segno di una presunta minorit? umana con cui giustificare nefandezze come imperialismo, colonialismo e schiavit?) che la Ryan scopre che nella lingua ghanese esiste una parola, ?obruni?, che vuol dire sia ?essere di pelle bianca? sia ?spellato?, cio? ?senza pelle? !

Non si tratta, naturalmente, di una facile ricerca dell?integrazione e della parit? (mete ovviamente da perseguire, ma senza facili scorciatoie: non ? inutile ricordare come all?indomani del colonialismo, l?abbandono post-coloniale con cui gli occidentali hanno lasciato al loro destino i loro ex possedimenti ha sovente comportato perniciosi fenomeni di tribalizzazione ), quanto della salutare necessit? di far toccare con mano la poliedricit? della societ? umana: cercare di capire come vedono gli occhi di un altro, lasciarsi guardare quale espressione tangibile di un mondo ? naturalmente non si pu? fare finta di dimenticarlo ? che ha parecchie colpe storiche da farsi perdonare. Ma, ad ulteriore complicanza di questo insieme di propositi subentra anche la stessa identit? mista di Virginia Ryan, figlia di quell?Australia bianca, gi? colonia britannica settecentesca (peraltro mai ridotta in schiavit?), che non si comport? certo con i guanti bianchi nei confronti della popolazione indigena: ecco dunque l?artista farsi fotografare, ad Accra, in tutta la sua fragilit?, durante un attacco di malaria, assistita da una donna nera, o partecipare da ospite per pi? versi ?fuori posto? ad un rito di villaggio, nel Togo, con alcune donne in trance. Un viaggio nel tempo e nello spazio che si nutre, simultaneamente, di dialogo con l?altro da s? e di auscultazione interiore dei propri intimi nodi irrisolti sullo specifico piano dell?identit?.

Con Exposures, un progetto perseguito facendo coraggiosamente ricorso ad un mezzo falsamente oggettivo come l?immagine fotografica (altro aspetto di intrinseca problematicit?), la Ryan, come si diceva all?inizio, non offre risposte, pone domande, stabilisce un percorso del possibile verso l?obiettivo, forse decisivo per il secolo che ? appena iniziato, di riconoscere, per cos? dire illuministicamente, la nostra comune sostanza umana senza che questo pregiudichi le specificit? e le eredit? storico-culturali di cui ciascuno di noi ? portatore: per questo, per l?artista, ? fondamentale conservare l?istinto nomadico, anche a prezzo di rinunciare a trovare un proprio definitivo ubi consistam, un luogo di sosta in cui provare a placare la propria inquietudine.

Va in questa direzione anche un?altra recente proposta di Virginia Ryan (con la preziosa collaborazione di Steven Feld), il progetto Castaways, anch?esso un work in progress, articolato in tre ambiti interconnessi tra loro, un CD-audio (Anomabo Shoreline), un video (Where Water Touches Land) e un insieme di quadri-sculture impaginato secondo un criterio modulare, ma continuamente variato in ogni sua singola espressione. L?idea prende le mosse dalle lunghe passeggiate dell?artista su alcune spiagge atlantiche del Ghana, quelle stesse legate alla deportazione schiavistica dei neri verso le Americhe: su queste rive Virginia raccoglie ogni sorta di oggetto depositato dall?oceano, materia prima per i quadri-sculture di cui si diceva poc?anzi, nei quali tali oggetti ? lacerati, arrugginiti, frantumati ? trovano apparentemente una nuova vita, una nuova dignit?, un riscatto da quel destino di naufragio e di cosa dismessa (propria questa duplice valenza semantica appartiene al termine inglese Castaways) che li condannerebbe ad un oblio senza fine. Un progetto sulla memoria, naturalmente, ove questi innumerevoli oggetti diventano quasi un?ipostasi del dolore vissuto da moltitudini di Africani strappati dalla loro terra e ridotti a mera forza-lavoro senza diritti: ma un riscatto che, pur generoso e partecipe, non potr? che essere tardivo e parziale, perch? quel dolore e quell?ingiustizia appartengono alla sostanziale insondabilit? della Storia, alle domande irrisolte su cosa davvero si celi negli anfratti pi? riposti e inconfessabili dell?animo umano. Un?alta dimensione etica appartiene all?arte di Virginia Ryan, specularmente lontana da certe insulse e capziose spettacolarizzazioni di vicinanza pelosa al terzo mondo, come la triste e ambigua performance di Vanessa Beecroft, nel Sudan meridionale, pochi mesi orsono .

EMIDIO DE ALBENTIIS

Un'estasi materialistica sembra presiedere lo sguardo della Ryan, che si lacsia allargare dalla

presenza del modello. Soggetto ed oggetto si fronteggiano, entrambi isolati tra loro: artista e dato

reale. Questo viene inspiegabilmente assunto e promosso dall'attenzione dello sguardo

dell'artista che stabilisce l'arbitrio dell'adozione.?

(Achille Bonito Oliva dal catalogo 'Landing in Accra' 2004)

*

ROSA MARIA FALVO,DALLA MOSTRA 'SHORELINES', PALAZZO TRINCI, FOLIGNO,2005:

And the waters rolled on,

and what was old was new, and what was new never came to stay,

but to skim the gates of change,

forever new, forever old and new:

Once-upon-a time,

Never the same, Always at last the same

[Kwesi Brew, poeta ghanese]

Proprio come questa poesia evoca le attivit? di tutti gli esseri viventi e di tutti i fenomeni naturali, esaltando la continuit? della vita attraverso passato, presente e futuro, cos? l?opera di Virginia Ryan, ispirata da una sorta di riflessione ?transculturale?, richiama la marea del cambiamento e della trasformazione. Essa cattura un mondo antico e ne reinventa uno nuovo, sospeso tra realt? e illusione, sviluppando una serie di possibilit? e di proiezioni sperimentali. Questa mostra rappresenta una reazione alla ?forza vitale locale? della costa occidentale dell?Africa, luogo di schiavit? e di oro, che ? diventato un punto focale per trasformare l?ordinario in straordinario, per collegare l?organico all?inorganico e per confondere i limiti fra terra e mare, fra storia e cultura.

Virginia Ryan sa bene, per via delle sue esperienze di trans-locazione, che ci sono molti modi per interpretare la realtAa. La sua arte diventa una specie di elegia per un mondo interiore che sta scomparendo, soggetto all?erosione del tempo e della reinterpretazione, nonch? una critica di una realt? esterna. Questa collezione di immagini, vero palinsesto di esperienze, sensazioni, privilegi e ricordi, fornisce una cornice per la sua vita e allo stesso tempo un contesto per la sua opera. L?interesse della Ryan nella memoria sia individuale sia collettiva (e nelle tracce che essa lascia dietro di s?) narra un luogo e legittima la vita, dandole scopo e significato. Il suo desiderio di riconcettualizzare la Storia, non importa se personale o culturale, fa da sfondo a una storia di scoperta, di esperienze e di ?manufatti?, un?autentica caccia al tesoro in una cultura locale, condotta con determinazione; e da questo corpus di oggetti la Ryan cerca di dare un senso a un?esperienza che ? sia personale sia sociologica. Possiamo immaginare che la tentazione a eccedere col sentimento sia forte, eppure ? questo procedimento di ?recupero?, con la sua nostalgica spinta a svelare il passato e rielaborarne il significato nel presente, che rivitalizza arte e artista insieme.

Questi oggetti ?dorati? e queste immagini coreografate vengono ricontestualizzate fra gli storici muri del principale museo di Foligno. Da un luogo che ha portato il peso della colonizzazione, dalla spoliazione delle sue ricchezze minerarie alla riduzione in schiavit? della sua gente, il Ghana riafferma il senso di s? nel contesto di questa straordinaria installazione. Situata a Palazzo Trinci, dove l?accumulo, al piano superiore, di cultura europea e dei suoi tre millenni di preziosi ?possedimenti? ? esibito con orgoglio, l?eredit? del passato, con tutte le sue mutilazioni e con il peso della sua saggezza, ? abilmente affiancata a una specie di salon des refus?s africano installato nelle sale al piano inferiore. I resti di un?antica cultura resa schiava da un?altra e che ancora vive sotto l?influenza di questa simboleggiano gli intimi detriti della vita semplice della gente locale, che convive col turismo e la globalizzazione. Il processo di ?raccogliere forme? e di facilitare la trasformazione di immagini, in loco, rende impossibile un singolo punto di vista e ci sfida a trovare significato nel contesto del presente.

Invocando cinque secoli di influenza europea, i fantasmi del Ghana sono tuttavia soggetti attivi nella sua realt? attuale. Tracciare i ?paesaggi interiori del desiderio?, tentando allo stesso tempo di darvi un senso, ? senza dubbio una sfida per qualsiasi artista. Che cosa d? significato alla vita all?interno della ?lenta e inesorabile vitalit?? del cambiamento? Il metodo della Ryan, che evidenzia un simbolo, un?idea o una figura umana cambiandone il contesto, getta una luce analoga sulle nostre percezioni europee e moderne. Collezionare ricordi e ricreare storie per superare una sensazione di sradicamento rende un oggetto o un?immagine altrimenti inestimabili uguali in valore al ?tesoro? che ? la condizione suprema propria della vita. Per coloro che non riescono ad afferrarne il messaggio, per?, il loro valore viene ridotto alla funzionalit? o alla mancanza di essa.

Se l?arte deve fornire uno stimolo che attiva il nostro potenziale pi? alto, allora deve venire a patti con il proprio passato mentre plasma un futuro. ? questa specie di scavo archeologico, questo portare alla luce il significato delle propria esistenza e occuparsi dei resti culturali e dei ?dati ambientali? della nostra storia e delle nostre origini, che rielabora una definizione per questa forma d?arte contemporanea. L?opera della Ryan ci offre una svolta relativista nei confronti di ci? che ? scartato, smaltito, sprecato o esaurito e di ci? che ? abbandonato, sacrificato, ceduto e dismesso. Il tutto viene contrapposto a ci? che ? valorizzato, conservato, mantenuto e magnificato. In questa marea di uso e di rifiuto, con i suoi ?detriti abbandonati?, l?artista ha costruito immagini dell?esotico e dell?insolito. Se le guardiamo attentamente, esse fanno parte dello stesso ambiente e sicuramente tutte contano; c?? unione nella dualit? proiettata ovunque (nero/bianco, tesoro/rifiuti, ricchezza/povert?, ecc.).

L?estetica africana ha generalmente una base morale che mira sia alla bellezza sia alla virt? e che spesso appare in contesti legati alle vitali preoccupazioni spirituali della condizione umana. Quest?opera mette in contrasto in modo interessante i resti di una vita quotidiana che lotta per scrollarsi di dosso gli effetti contaminanti dello ?ecoturismo?. Gli ?scarti? della Ryan vengono riconcettualizzati e risuscitati. Ogni pezzo ha la propria storia, una storia che continua e su cui si pu? speculare all?infinito. Trasferendoli in un altro mondo possiamo ricostruire il loro valore e dare loro una nuova vita, pur se una vita artistica. Forse questa intuizione viene dal presupposto che nulla venga effettivamente distrutto o creato, ma soltanto riciclato.

Dato che la vita di ognuno ? sempre un?interazione fra circostanze esteriori e tendenze interiori, le stesse circostanze o lo stesso luogo che una persona percepisce come incessante sofferenza possono essere fonte di stimoli entusiasmanti e di soddisfazione per un?altra. La nostra capacit? di resistere alle circostanze pi? difficili e persino volgerle a nostro favore ? sempre stato ci? che ha contraddistinto il genere umano. La collezione ?sotto vetro? della Ryan, che oggettiva sia articoli naturali sia attivit? umane, mette in discussione le ?carcasse? del nostro sistema di valori e gioca sui concetti di eleganza e di disgusto, di opposizione e di resa. Ci? viene ulteriormente illustrato nelle sue descrizioni dell?ambiente naturale. In un piccolo numero di comunit?, i popoli indigeni vivono in un profondo rispetto per quanto li circonda e difendono le ricchezze della natura ricevendone in cambio protezione e sostentamento. Tuttavia, nelle zone sviluppate dove predominano i bisogni consumistici l?ambiente viene spesso divorato, con effetti catastrofici.

Mentre il dibattito globale sui diritti umani e sul progresso evidenzia molti sistemi di valori e concezioni del mondo in contrasto fra loro (modernit? contro tradizione, oriente contro occidente, privilegi socioeconomici contro diritti civili e politici), alla fine tali questioni, comprese quelle che non hanno un linguaggio comune, sono tutte basate su una certa nozione di ci? che ? la dignit? umana. Il concetto di dignit? come base di prerogative nei confronti della natura non-umana sta venendo soppiantato sempre pi? dall?idea di responsabilit? speciali verso la natura e verso il prossimo. Inevitabilmente, le ?distese di rifiuti? della nostra esistenza ci vengono restituite dal riflusso della nostra coscienza collettiva.

? Rosa Maria Falvo, settembre 2005

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Massimo Duranti

Exhibition 'Festival di Corciano' 2006

'Venuti in Umbria per arte'

Virginia Ryan ritrova spesso in Umbria le ragioni del vivere in una civilt? occidentale ancora non troppo globalizzata, rispetto all?Africa in cui vive molti mesi dell?anno dove il sottosviluppo si confronta da vicino con gli effetti massificanti della civilt? dei consumi: una contraddizione che racconta nei suoi assemblaggi e nelle efficaci fotografie.

Le opere dell?esperienza di ricerca sulla costa africana confluiscono in Castaways, un progetto in corso d?opera in cui l?artista acquisisce reperti di varia natura come elementi simbolici da applicare su supporti. Analoga operazione compie con le immagini che, elaborate graficamente e stampate col plotter, diventano simboli-reperti di una condizione umana in sofferenza.

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'Guardare attraverso la Trasparenza'

STEVEN FELD 2006

Traduzione di Silvia Lelli

Per pi? di un secolo innumerevoli visitatori bianchi hanno catturato immagini decorative ed autorevoli della vita quotidiana e rituale in Africa. Questo imponente corpo di fotografie euroamericane ha generato l?idea diffusa che ?Fotografia Africana? significhi immagini di soggetti neri realizzate da fotografi bianchi o immagini della vita coloniale con gli africani sullo sfondo. Soltanto i visitatori di rare mostre e i lettori di cataloghi come In/sight: African Photographers, 1940 to the Present, sono consapevoli di un?altra ampia realt?, un ricco mondo di fotografie di soggetti africani realizzate da fotografi africani. Nessuno di questi precedenti anticipa a pieno la complessa riorganizzazione dello sguardo che si trova in Exposures di Virginia Ryan: qui il soggetto ? una artista bianca che espone la propria vita quotidiana e rituale in Africa Occidentale, fotografata da africani e non-africani, amici, compagni o di passaggio.

Ogni immagine scatena domande immediate su che cosa potrebbe stare accadendo nel quadro, socialmente e visualmente. Quali drammi sociali su razza, potere e genere sono in mostra? Quelli su maschere, rito e cerimoniale? Quelli su ornamento del corpo, abbigliamento e apparenza? Sull?interazione sociale in pubblico? Su pelle, gesto e movimento? Simultaneamente, di quali drammi fotografici sono testimoni gli osservatori? Di immagini catturate senza che le persone ne fossero consapevoli? Immagini pi? intenzionalmente costruite ma fatte apparire spontanee? Quali complicit? uniscono i soggetti ritratti e coloro che stanno dietro la machina fotografica? Insomma, che tipo di performances sono presentate in queste giustapposizioni fotografiche di Virginia Ryan con estranei ed intimi, partecipanti inconsapevoli e collaboratori? Vederle permette di guardare attraverso la trasparenza della differenza razziale? Vederle ci fa sentire intrappolati o liberati dalle banalit? della political correctness e dell?umanismo universale trascendentale?

?

SF: come ? iniziato per te questo progetto?

VR: ? iniziato molto presto dopo il nostro arrivo ad Accra, dove venivamo a vivere, in concomitanza con l?ascolto di molti discorsi postcoloniali e la spedizione di e-mail con l?immagine di questa noce di cocco ad alcuni amici italiani. La reazione ? stata severa. Per me era solo una foto da vacanza, qualcosa che avevo scattato per dire ?ecco cosa ho fatto ieri?. Ma alcuni amici hanno risposto con ironia e ansia, tipo, ?oh, poverina, sta diventando tropicale, con i ragazzi che la nutrono di noci di cocco?. Mi sono sentita giudicata stranamente. Ma anche incuriosita dall?imprevista pregnanza dell?immagine. Allora ho iniziato a chiedermi: ?dove sono le immagini e le storie dei bianchi contemporanei in Africa Occidentale?? Be?, la risposta era semplice: vi era una scarsissima documentazione del mondo dei bianchi postcoloniali che attualmente vivono l?. Mi sembrava che i bianchi spesso si prendessero il potere di scrivere i libri, fare le foto, raccontare le storie, ma fossero ampiamente esclusi come soggetti di quelle rappresentazioni. Naturalmente per? come bianchi eravamo soggetti - di occhi africani, se non dei nostri. Quando mi sono resa conto di questo ho visto quell?apertura che incita all?arte. Non mi sono proposta di provare qualcosa, e non l?ho fatto. Ho semplicemente documentato la mia esperienza di donna bianca che vive in un ambiente prevalentemente nero.

Il bianco ? un colore

Bianco, il colore dei fantasmi, delle ossa e degli angeli, ? con certezza per l?Africa Occidentale il colore dello straniero, del colonialismo, delle camicie inamidate, dei pantaloni candeggiati, della biancheria intima, dei calzettoni, della pelle bruciata dal sole. Bianco ? il colore dei caschi coloniali e dei documenti, della carta, delle menti missionarizzate, il colore del potere storico. Il bianco coloniale ? il colore dell?invasione, il colore di potenti intrusi che immaginavano la realt? capovolta, facendo del ?nero? il colore della differenza, rappresentando il nero come straniero esotico ed esaltando il bianco come suo valoroso salvatore, come il garante del suo miglioramento, del suo sviluppo.

Nella cultura del progetto coloniale il bianco ? il colore della pulizia, dalle applicazioni di sapone Ivory o Dove all?assorbente morbidezza degli asciugamani e degli indumenti di cotone bianco. ? il colore delle lenzuola di lino, dei cuscini, delle zanzariere, il colore delle comodit? della civilt?. Bianco ? il colore della neve e delle piume d?oca dei piumini, che uno abbandona per il bianco calore dei tropici.

Il bianco ? il colore dello sperma, del latte materno e del latte fresco di mucca, il colore della genesi, dell?essenza e del nutrimento. Bianco ? il colore della farina, del riso, del sale e dello zucchero raffinati, il colore dell?alimentazione di base. Bianco ? anche il colore della ricchezza raffinata dei ricami, della biancheria, della porcellana, del marmo statuario, dell?avorio, delle perle.

Il bianco ? il colore della pace, dell?armistizio, dell?amnistia, il colore di chi si arrende, della neutralit?, di una fine delle ostilit?. Bianco ? il colore della verginit?, il colore della calce, il colore degli ospedali, delle cliniche, dei camici dei dottori, dei vestiti delle infermiere, il colore della disinfezione. Bianco ? il colore della morte, dei corpi avvolti in sudari, il colore alla fine di tutti i colori.

Il bianco ? il vuoto (blank, blanc, blanco, il nulla), la superficie sulla quale parole, immagini, numeri, appunti saranno scritti, disegnati, tracciati, schizzati, stampati, annotati. Bianco ? il colore al quale la pagina stampata torna solo attraverso la cancellazione o il ?bianchetto?.

Il bianco ? la superficie vuota delle tele, della carta fotografica e dello schermo.

Il bianco ? il luogo della moderna proiezione e illuminazione, la superficie estetica sulla quale altri colori sono posti, diffusi, proiettati, riflessi, resi luminosi.

Bianco ? il colore dell?Innocenza, il pi? bianco dei quadri bianchi, essenziali come lo Zen, di Agnes Martin.

*

SF: I tuoi antenati irlandesi, come i miei, provenienti dall?Europa Orientale ebraica, sia prima che dopo la migrazione, non erano semplicemente o evidentemente ?bianchi? in modo scontato. Vivere in Africa Occidentale ti ha reso cosciente del fatto che la tua ?bianchezza irlandese? ? qualcosa di recente, che l?etichetta ?Black Irish?, ?Irlandese nero? era qualcosa di vecchio e lontano?

VR: attraverso conversazioni con amici americani ho conosciuto il termine ?Black Irish? e ho preso coscienza del fatto che etnicit? e origine sono stati mescolati e confusi con categorie razziali, classi sociali e raggruppamenti nazionali in Europa e altrove. Ma quello che mi ? accaduto vivendo in Africa Occidentale - ed ? stata un?esperienza unica confrontata con le mie esperienze di vita in Italia, Egitto, Scozia, Brasile ed ex-Yugoslavia - ? che ? diventato impossibile per me ignorare la relazione del colore della mia pelle, detto ?bianco?, con il mio ambiente, con le mie relazioni ed esperienze quotidiane.

SF: com?? accaduto che questa forte auto-consapevolezza di essere classificata come ?bianca? sia divenuta una ?tela?, un supporto artistico per queste foto?

VR: ho usato la mia stessa pelle perch? era costantemente a disposizione, era sempre presente. ? stata semplicemente un?intuizione artistica, credo, l?idea che avrei potuto assumere il mio ?essere bianca? come fatto straordinario, non come colore ovvio e normale o come mancanza di colore, ma come qualcosa che gli africani attorno a me guardavano, a cui facevano caso. Se loro erano cos? consapevoli del mio colore, perch? non potevo esserlo anch?io? Talvolta era solo il bruciore che sentivo, soffrendo i colpi di calore della dislocazione, bianca come la nausea. Ma questo forse ha anche a che vedere col fatto che sono australiana.

SF: vuoi dire col fatto che anche l?Australia era una colonia Britannica?

VR: s?, anche questo, ma naturalmente noi non siamo mai stati schiavi, siamo sempre stati una nazione Bianca - con la B maiuscola - il che ? un abuso terribile nei confronti dei suoi abitanti indigeni, con la pelle scura. Io credo che abbia pi? a che fare con il venire dalla frontiera. Come donna australiana probabilmente avevo meno problemi in Ghana, ero pi? libera, pi? facilmente assecondata. Penso di avere avuto la possibilit? di essere ?sperimentale?, di essere stata meno soggetta a critiche, rispetto ad esempio a una donna italiana, nonostante la mia cittadinanza italiana o i miei rapporti con l?Ambasciata Italiana in Ghana.

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Nei ritratti del diciassettesimo secolo dei maestri olandesi, i volti e le mani bianche sono sempre illuminati, frammenti di rosa affiorano creando una superficie temporale sulle pelli bianco-latte, spesso stagliate sul bianco puro di gorgiere, colletti, biancheria. La pittura qui rivela la porosit? della pelle, la sua trasparenza, la sua risoluzione emozionale e il suo contenuto biografico. Una tenera vulnerabilit? incontra una saggezza stoica nella luce riflessa e assorbita da ogni poro della pelle. La pittura, per parafrasare Maurice Merleau-Ponty, diviene un toccante e intimo rendez-vous dell?occhio dell?artista con la pelle del soggetto.

Il Ritratto di Gerard Bicker di Bartholomeus van der Helst, ad esempio, fa emergere dal bianco i rosa-mela della pelle per rivelare i rosa pi? intensi delle labbra. Come il ritratto della piccola Helena van der Schalcke di Gerard ter Borch rivela la delicata pelle bianca infantile in contrasto con il ricamo dell?abito bianco di un adulto in mezzo a un contorno profondamente nero. Il bianco, infine, diviene la purezza della luce e della sostanza nella Kitchen Maid di Jan ver Meer?s che versa un sottile filo di latte in una ciotola mentre un ampio fiume di luce si riversa sulla sua cuffia e sulla sua pelle bianche dalle finestre sovrastanti.

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SF: data la tua sensibilit? artistica per il bianco come un supporto europeo dell?illuminazione estetica, quali nuovi significati si sono accumulati per te sul colore bianco nel contesto dell?Africa Occidentale?

VR: l? sono divenuta molto consapevole di quanto il bianco possa essere visto soprattutto come mortale, fantasmico, agghiacciante ? come un qualcosa di scorticato fino alle viscere. In Ghana ho sentito dire una volta che la parola ?obruni?, generalmente usata per indicare la gente con la pelle bianca, veicola anche il senso di essere ?spellato?. ? come essere senza pelle, la pelle bianca ? come un?esposizione totale, essere stati privati della pelle. Non so se questa osservazione ? linguisticamente esatta, ma il fatto che sia stata detta a me rende la cosa ancor pi? rilevante e decisamente scioccante.

Pi? domande, meno risposte

Nel suo libro, White, Richard Dyer evidenzia l?essere bianchi come una categoria storica e critica di esperienza privilegiata, con imponenti collegamenti culturali alla cristianit?, all?imperialismo, alla purezza dello spirito e delle imprese, alle idee della superiorit? razziale ariana e caucasica. Egli delinea i modi nei quali il potere dell?essere bianchi nei film, nella fotografia, nella letteratura e nella cultura d? forma ad atteggiamenti e a immaginari persistenti. Ma si sforza anche di problematizzare la storia attraverso percorsi di classe, genere e differenza sessuale, chiarendo che non c?? un ?bianco? unitario nell?esperienza o nella comprensione dell??essere bianchi?.

Allo stesso modo, la meditazione di Virginia Ryan sulla pelle e sul luogo, sugli incontri pianificati o spontanei, sull?assistere qualcuno o essere assistiti, ? in effetti molto pi? provocatoria e destabilizzante di un semplice sguardo su come un corpo bianco inserito in un luogo istante e innaturale. Parallelamente al libro di Dyer, le fotografie qui sfidano gli osservatori a interrogarsi sulla relativit? del colore nella storia. Nel vedere posizioni razziali destabilizzate, gli osservatori possono immaginare la fase seguente del rovesciamento dello sguardo? Ad esempio: l?immagine di una donna africana alla quale una donna bianca taglia i capelli o fa un trattamento estetico? l?immagine di una donna africana e i suoi cuochi o autista bianchi? l?immagine di una gioielleria dove una commessa bianca mette una collana d?oro attorno al collo di una donna africana? L?immagine di una donna africana che si fa massaggiare i piedi da un riflessologo bianco? L?immagine di una donna africana e delle sue guardie del corpo bianche? L?immagine di una donna africana in un museo che, accovacciata, osserva attentamente degli uomini bianchi nudi che danzano?

Simili domande sono anche collegate ad un ampio complesso di implicazioni relative alle posizioni sociale e alla realt? esperienziale della persona in queste immagini. Ci si chiede: la donna bianca ? benevola? ? Imbarazzata? ? come a casa sua? ? divertita? Arrogante? Empatica? Premurosa? Impietosita? Cortese? Annoiata? Inconsapevole? Appassionata? E potrebbe qualcuna di queste parole - punti interrogativi inclusi - essere scelta da coloro che vediamo nelle foto per descrivere la donna bianca?

Dall?esposizione dei molti strati della sua metaforica e letterale differenza, la donna bianca non invita egualmente i suoi osservatori a beffarsi cinicamente di lei e ad abbracciarla simpateticamente? Ci si chiede, alla fine, se la donna bianca non si sia spinta troppo lontano, sovradeterminando il fatto che sarebbe apparsa repulsiva nel suo atto di auto-esposizione? Oppure, la donna bianca evita questo rischio provocando una pi? profonda meditazione su ci? che si prova ad essere strani nel mondo, sfidando coloro che guardano a sperimentare la propria pelle come strana, chiedendoci di scrutare attraverso la trasparenza?

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SF: hai mai percepito che il progetto era pericoloso, che fare quelle immagini avrebbe potuto offendere, disturbare, insultare? O sentivi il processo pi? cordiale, pi? collaborativo?

VR: contrariamente ai comprensibili e prevedibili commenti politicamente corretti degli occidentali, non sono mai stata fatta sentire come un?intrusa dagli africani occidentali. Chiedevo alla gente se potevo scattare le foto. Invitavo alla complicit? e mantenevo tutto quanto pubblico. Su circa duecento scatti ho avuto un rifiuto una sola volta.

Mostravo sempre immediatamente alla gente le foto sul retro della macchina. Quando ero in zone lontane dalla mia base in Accra, l?effetto era pi? forte. Molte persone non avevano mai visto prima istantanee digitali come quelle. C?era molta gioia in questo. Se per esempio ne avevo scattate tre le guardavamo assieme sul posto e decidevamo qual era quella che non avrei cancellato.

Sebbene io sia un?artista visuale non pensavo tanto a queste come a foto artistiche ma a scatti di specifici momenti, spesso molto ordinari. Ma naturalmente una volta invitate nell?immagine, le persone posavano. Nella mia esperienza, alla gente piaceva farsi fotografare; lo trovavano molto auto-affermativo. Spesso sono stati momenti giocosi quelli passati insieme, momenti che accentuavano la dignit? di ognuno, come quelli che si vedono nell?elegante portamento del capo a Princetown.

Dalla bianchezza invisibile a quella visibile

La bianchezza della pelle ? il locus dell?immaginare privilegiato, lo standard invisibile.

- Patricia J. Williams

Cinquant?anni fa gli artisti e gli intellettuali conosciuti non si proponevano di rappresentare criticamente, di studiare o di problematizzare l?identit? razziale bianca? Parlare come un intellettuale bianco, creare come un artista bianco, non implicavano normalmente la consapevolezza dei propri particolari interessi razziali e ancor meno delle proprie patologie. La gente di colore si preoccupava di questi problemi. I bianchi potevano articolare verit? universali. Era facile, persino naturale, essere bianchi.

- David Roediger

Maurice Berger, nel suo White: Whiteness and Race in Contemporary Art, sviluppa temi criticamente enunciati da Patricia J. Williams nella prefazione del libro e da David Roediger nella Postfazione. Parlando della tuttora onnipresente ?invisibilit? della bianchezza? nella societ? americana, afferma che ?la maggior parte della gente bianca, non volendo assegnare un significato all?essere bianchi, si libera dalla responsabilit? di accettare, e persino di capire, i suoi stessi pregiudizi?. Inoltre, conclude, ?l?essere bianchi continua ad offrire alla gente bianca di tutte le classi un dividendo prezioso: la capacit? di esistere nel mondo senza dover pensare al colore della propria pelle.?

Le fotografie di Virginia Ryan prendono a cuore questi temi critici, mostrando come la presa di coscienza artistica dell?essere bianchi - letteralmente la sua 'esposizione' - pu? rispondere al privilegio dell?invisibilit?. I suoi altri progetti africani, Landing in Accra (2002), un lavoro di pittura collaborativa con scrittori di segni di Accra; Strangers in Accra (2004), una memoria di complessi e diversi incontri africani; Floating Wastelands, Castaways, e Goldfields (2002), una meditazione dipinta e scolpita sulla ?costa d?oro? e i detriti della storia, sono tutti radicati in una certa presa di coscienza della differenza e del privilegio, di come un artista dislocato scopre e si confronta con l?estraneit?. Ma ? in Exposures che Ryan si impegna con pi? determinazione nell?estetica della visibilit?, usando la sua stessa pelle come materiale artistico attraverso il quale interrogarsi su come e su cosa significhi essere bianchi.

In questo modo il progetto di Ryan si articola strettamente con due progetti presentati da Berger. Primo, quello di Nikki S. Lee, un?artista Koreana che vive a New York. Il modus operandi di Lee consiste nell?infiltrarsi in comunit? a lei estranee, impadronirsi del loro abbigliamento e dei loro codici visivo-gestuali e poi posare di fronte alla propria macchina fotografica e agire come un loro membro iniziato e riconosicuto. Del suo The Yuppie Project - fotografie di se stessa in posa come membro a pieno titolo dei giovani operatori di borsa WASP (White anglo-saxon protestants) di Wall Street - Berger scrive: ?Il mascherarsi secondo quella moda, il trucco e il linguaggio del corpo di questa gente, l??asianit?? dell?artista e il suo sconforto viscerale, si leggono altrettanto distintamente quanto il loro essere bianchi?. Egli apprezza questa verve politica e i significati estetici ?dell?inquietante viaggio di Lee nel cuore del privilegio bianco, un mondo nel quale l?essere bianchi ? strenuamente protetto, ma sempre felicemente e vantaggiosamente invisibile.?

Berger apprezza anche il noto lavoro fotografico di Cindy Sherman e presenta Bus Riders, una serie del 1976 composta da 15 fotografie in bianco e nero di Sherman vestita come vari passeggeri di autobus bianchi e neri di Buffalo (Stato di New York). Berger vede questo progetto come ?uno dei primi esempi di arte concettuale che ha marcato l?essere bianchi come identit? degna di essere esaminata.?

L?apprezzato lavoro di Sherman ? anch?esso basato sull?esplorazione artistica del travestimento e della personificazione e, attraverso queste, sull?esplorazione della categorie di razza, genere, classe, identit?. L?artista esplora i confini e la vaghezza della persona, dell?individualit?, dell?appartenenza sociale e di gruppo. Come Lee, il suo metodo ? il mimetismo e l?uso del corpo come superficie per la trasformazione. Essa attua [? fa una performance] per la macchina fotografica, usando travestimenti per posare come una molteplicit? di persone possibili, ognuna una densa incorporazione di classe, genere, designazioni razziali e altre identit?.

Nella loro congiuntura ? chiaro che Exposures non ? ?Nikki S. Lee fa l?Africa Occidentale? o ?Cindy Sherman fa la razza.? Perch? niente qui ? radicato nell?estetica del mascheramento, della personificazione, dell?appartenenza falsificata, di scenografie e camuffamenti, infiltrazioni o facce separate del postmodernismo. Virginia Ryan non appare di fronte alla macchina fotografica come qualcuno diverso da quello che ? veramente. Il suo intento fotografico non sta n? nel mascherarsi per apparire a suo agio o a disagio rispetto alla sua posizione sociale, n? nel posizionarsi come l?insider o l'outsider per eccellenza nell'inquadratura fotografica. La sua pratica ? molto pi? radicalmente situata in un?estetica della provocazione documentaria. Lei ? letteralmente se stessa, digitalmente esposta nel corso del fare quello che sta facendo, giorno dopo giorno, anno dopo anno, ad Accra e in Africa Occidentale. La sua presenza fotografica si rivolge alla sua persona non per essere travestita ma per auto-interrogarsi. La residenza temporanea e il condurre una vita nello spostamento sono elementi-chiave qui, come le ovvie storie che affiorano sul privilegio, sul potere, sullo status di classe.

Allora cos?? la provocazione del documentario come alternativa estetica al mascheramento postmoderno? Exposures incarna una pratica artistica del trovare ed espandere, in egual misura, le soglie del dis-agio e della forza, della vulnerabilit? e del coraggio. ? la scoperta di essere estranei a se stessi, usando la macchina fotografica per registrare e rivelare, stimolare un?antropologia introspettiva del s? e della vita sociale. In maniera opposta all?antropologia ?intrusiva? o ?infiltrante? di Lee o di Sherman, quella di Ryan ? un?antropologia ?intuitiva?, che interroga le frontiere esotiche e strane della sua stessa pelle e delle proprie circostanze di vita, in quanto costituite, in modo particolare, attorno a rituali diplomatici come visitare scuole, istituzioni culturali, ospedali, in occasione di performances e di celebrazioni.

E se Ryan appare qui con il presidente del Ghana, con importanti personalit? pubbliche e con alcuni dei pi? noti artisti del paese - i pittori Almighty Akoto e George Hughes - appare anche con numerosi ordinari lavoratori, insegnanti, bambini di scuola, rifugiati, venditori del mercato e passanti nel mondo quotidiano di Accra, per non parlare di quando appare con le persone con le quali ha avuto una relazione quotidiana di lavoro in Ghana: gli impiegati locali e lo staff dei domestici dell?Ambasciata Italiana che hanno scattato alcune delle immagini.

Sebbene i progetti fotografici di Lee, di Sherman e di Ryan performino tutti la razza, la rendano visibile, critichino la sua occulta-azione, la posta in gioco risulta indubbiamente alterata quando una figura pubblica bianca ? fotografata in pubblico dai suoi impiegati neri, come nell?immagine che mostra un?elegante signora bianca in un supermercato di lusso, i cui altri clienti sono in maggioranza africani, o l?immagine sfocata di una donna bianca seduta sulla panca per le flessioni, lontana, molto al di l? dello sguardo annoiato della guardia del corpo e del buttafuori nella palestra di un hotel. O l?immagine privatissima di un?infermiera nera in uniforme bianca che assiste la donna bianca tormentata dalla malaria, avvolta nelle sue lenzuola bianche, con fiori bianchi sul comodino.

Anche What White Looks Like: African-American Philosophers on the Whiteness Question, di George Yancy, e la potente antologia Black on White: Black Writers on What it Means to Be White, di David Roediger, affrontano il tema dell??invisibilit??, rovesciandolo letteralmente. Attraverso un intero panorama storico, questi libri si aggiungono ad un?imponente consapevolezza della competenza osservativa ed esperienziale [omissis: degli afroamericani] sui bianchi e sull?essere bianchi. Nel suo saggio Black on White sulle ?Rappresentazioni del Bianco nell?immaginario Nero?, la teorica bell hooks mette la questione in veri e propri termini antropologici. Dice, a proposito dei suoi studenti: ?il loro stupore sul fatto che la gente nera guardi la gente bianca con un critico sguardo ?etnografico? ? essa stessa un?espressione di razzismo.? Su tutto ci? Roediger pone la domanda critica riassuntiva: perch? gli scrittori bianchi traboccano dalle pagine della storia proclamando competenze sull?esperienza nera, mentre vi ? scarso riconoscimento della competenza nera sui bianchi?

Le domande paralelle che potremmo sollevare sull?Africa Occidentale sono ovvie. Quanti ?esperti? africani hanno studiato il privilegio bianco in confronto a quanti ?esperti? bianchi hanno studiato la ?povert?? nera? E perch? ? un?esperienza cos? unica leggere An African in Greenland, di T?t?-Michel Kpomassie, una cronaca Togolese della vita tra gli Inuit? O leggere la brillante analisi dello psichiatra martinicano Frantz Fanon sulla psicologia del colonizzatore bianco in ?Pelle nera, maschere bianche?? Se tali domande riaprono nuovamente la questione della politica di Exposures, ? perch? chiedono come mai cos? pochi fotografi neri hanno avuto l?opportunit? di fotografare il privilegio bianco - la vita bianca sulla scena e dietro le quinte - in confronto al numero di fotografi bianchi che hanno fotografato ?rituali? e ?culture? nere. Chiedono che cosa ? in gioco quando un artista bianco ? complice di africani nel fotografare il mondo pubblico e quello dietro le quinte della propria vita da bianchi, compreso il mondo del rituale diplomatico?

Quando analizziamo queste foto cercando segni di come la consapevolezza bianca emerge dal circostante nero, ? innegabile che le immagini parlino in modo molteplice: parlano alle realt? visibili dell?egemonia postcoloniale, a come l?arte possa ispirare una consapevolezza de-colonizzante negli osservatori. La miscela di consapevolezza e critica ? potente perch? la scelta delle immagini di Ryan proietta sia il conforto sia il disagio della posizione del soggetto, distintamente sua. C??, s?, un privilegio inerente nella sua posizione, ma non ? il privilegio del nascondersi, dell?invisibilit?, del dimenticare, non ? il privilegio del dare per scontata la pelle.

Ci? che l?assunzione della propria bianchezza da parte di Ryan comporta, allora, ? una particolare coscienza di essere guardata, di essere osservata, di essere oggetto di curiosit?, di essere studiata, di essere un punto interrogativo, di essere sempre un segno di qualcosa, comprese cose che ? e che non ?. Questa sensibilit? colora la vulnerabilit? che lei e altri sperimentano nel negoziare le reciproche motivazioni, bisogni, programmi, desideri e speranze. Ci? che ? unico ? il modo in cui essa mobilita queste dimensioni della reciproca paura, vulnerabilit?, sguardo, meraviglia e coraggio, trasformandole in immagini che hanno il potere di de-colonizzare mentalmente alcuni settori della fotografia ?documentaria? dell?Africa Occidentale e di antropologizzare artisticamente la sua esperienza del quotidiano essere bianchi ad Accra.

Le parole del critico d?arte italiano Achille Bonito Oliva, sul progetto Landing in Accra di Ryan, si addicono anche ad Exposures: ?Nel lavoro di Virginia Ryan, l?arte ha il bisogno duale di affermare se stessa e di confermare il mondo. Cos? niente ? escluso. Con visione acuta, Ryan si assicura che l?atto creativo non abbia luogo in un?atmosfera di scarsezza, di sottrazione. L?arte diviene il campo dell?amplificazione e della complessit?, sostenuta da una logica che non corrisponde a nessuna norma della funzionalit?. Infatti, l?arte ? pi? funzionale quando ? basata sull?incontro di opposizioni e sull?affermazione delle differenze.?

SF: quale vedi come maggior rischio nell?uso del bianco della tua pelle come ?tela?, come supporto artistico?

VR: il rischio maggiore ? che qualcuno potrebbe interpretarlo come una storia illustrata ?in lode del bianco?. Che qualcuno potrebbe vederlo come una nuova versione del fotoromanzo del successo del bianco in Africa - l?esploratore bianco che posava al centro della foto con gli africani come sfondo decorativo. Io qui mi sono messa a rischio. Quando un artista ? cos? cosciente di essere una straniera, cos? consapevole di essere bianca, cos? consapevole di dare nell?occhio, ha bisogno di trovare un modo per esprimere il disagio di questa esperienza.

SF: quel disagio gioca un ruolo sovversivo nel progetto?

VR: per alcuni, la presenza di una persona bianca in queste foto segnala immediatamente un?autorit? gerarchica. Penseranno soltanto al mio potere e alla presunta mancanza di potere di quelli che mi circondano. Be?, ? vero che qui c?? molto da discutere su potere e posizione. Ma vi sono anche molte immagini che sfidano e ribaltano assunzioni semplicistiche o banali. Vi sono molte immagini che mi mostrano nel ruolo di astante, immagini che mostrano africani che prendono decisioni, assumono responsabilit? su quello che sta accadendo. Come la fotografia di Almighty Akoto che mi dice quanto devo pagare per un quadro, o l?immagine di me e di altri bianchi in un servizio fotografico con il presidente del Ghana.

Il bianco ? un colore fotografico (di genere)

Per quanto sono avvincenti tali questioni di rappresentazione in estetica e in antropologia, il progetto di Virginia Ryan parla in maniera altrettanto provocatoria alle critiche questioni sull?arte del realismo fotografico.

In questo contesto ? utile giustapporre Exposures e le memorie di Jane Gallop?s, Living With His Camera, una profonda interrogazione sui teorici della fotografia del XX secolo e un resoconto personale sull?essere stata per vent?anni soggetto delle immagini scattate dal suo convivente, il fotografo Dick Blau.

Le fotografie di Virginia Ryan sollevano alcune questioni parallele a quelle di Gallop: in che modo l?immagine ha una vita sociale, in che modo opera simultaneamente a molteplici livelli, come oggetto materiale, come intermediario sociale, come aide-memoire, come ispirazione di storie, come atto che unisce o separa gli attori. E anche Gallop, come Ryan nelle sue affermazioni introduttive, confronta imbarazzo e irritazione, la possibilit? che altri vedranno nelle sue foto cose di lei che non vorrebbe che vedessero. Accanto a queste paure Gallop, di nuovo come Ryan, confronta il genere dell?immagine, il piacere di guardare se stessa, che altri guardino lei, di esporsi ed essere esposta nel processo di composizione di una vita.

Collegare il progetto di Gallop a quello di Ryan significa lottare con il potere sensuale delle immagini nell?esperienza di tutti i giorni e nella memoria. Che cos?? che nelle istantanee ?del qui ed ora? ci induce a ricordare, mettere in questione, interrogarci su tempi e luoghi, persone e sentimenti? Penetrare nell?immagine ? penetrare nella trasparenza di un mondo possibile. Svelare, 'spellare' la trasparenza, guardare dentro le storie immaginate per risiedere oltre le loro superfici ? un modo di interrogarsi sugli strati slittanti e sovrapposti che costituiscono un mondo, chiedersi com?? il mondo di qualcuno, che cos?era, cos??, che cosa potrebbe essere, che cosa non era, cosa potrebbe essere stato, cosa potrebbe essere.

L?essere bianchi, chiave di un?antropologia estetica del s? e della performance, ? qui anche una chiave di Exposures come lavoro di arte fotografica. Queste piccole foto a colori non sono forse relative anche a quello che non pu? essere detto sulla razza in foto ?d?arte? in bianco-e-nero? Non vanno forse oltre la logica binaria del bianco-e-nero, del positivo e del negativo fotografico? Non espongono il ?bianco? come colore fotografico, non semplicemente colore e consistenza ?razziale? ma qualcosa che ? composizionale, spaziale, un colore pienamente valorizzato in uno spettro di colori? Giocando fotograficamente con il bianco, letteralmente incorniciandolo ed esponendolo (occasionalmente sotto-esponendolo o sovra-esponendolo), le immagini di Ryan chiedono come il colore della pelle parli al colore del realismo fotografico. Chiedono come il colore delle istantanee parli al colore dell?esperienza.

La forza di questa idea ? rivelata dalla sua giustapposizione con le fotografie stile ?alta moda?, in riviste tipo Vogue, di Faces of Africa di Carol Beckwith e Angela Fisher o di African Elegance di Ettagale Blauer. In questi libri per tavolino da salotto la posizione delle fotografe e delle scrittrici ? sopraffatta da ombre di un riconoscibile sguardo coloniale maschile. Sono in mostra foto che intendono fare appello a un supposto umanismo universale dei concetti di eleganza, dignit?, orgoglio, bellezza, seduzione visuale di abiti, riti, cerimonie, gesti e, soprattutto, volti imbelliti. Ma, come molte immagini dei loro predecessori e contemporanei maschi, queste fotografie sono racchiuse in una cornice primitivista atemporale ed entro un?estetica dell?esotismo.

Non vi si trova, in effetti, nessun segno dell?incontro coloniale o mondiale, nessun segno di modernit?, nessun segno di vita postcoloniale, nessun segno di esperienza interculturale e assolutamente nessuna traccia di bianchezza nei dintorni. Quanto ? pi? reale un?Africa fotografica nella quale le realt? postcoloniali nere non sono ?disinfettate? dalla rimozione della presenza bianca?

La storia della fotografia ? stata dominata indubbiamente dagli uomini come fotografi e dalle donne come soggetti fotografici, nel ritratto, nella moda e nella pubblicit?, nel documentario, nella pornografia o nelle foto di famiglia. Ma ? altrettanto indubbio che gli ultimi 30 anni hanno visto un?enorme aumento di donne che fotografano donne, di donne che fotografano se stesse, di donne che rappresentano donne come attori, agenti, soggetti, corpi.

Questi temi sono fortemente consolidati in Women, dell?apprezzata ritrattista Annie Liebovitz, con un saggio di Susan Sontag, autrice di On Photography, probabilmente il pi? influente e ampiamente discusso libro mai scritto sul soggetto della rappresentazione fotografica. Sontag ? immediata e tagliente sui rischi che le donne corrono come soggetti fotografici: ?Nessuno sfoglia un libro di fotografie di donne senza osservare se le donne sono attraenti o no?. Essa delinea come la storia visuale dell?essere donna sia la storia del concetto di attrazione, un concetto che implica un fotografo maschio, un osservatore maschio, uno sguardo maschile, un giudizio maschile. Quando i soggetti sono maschi, mostra Sontag, ? il ?carattere? che viene giudicato e rappresentato fotograficamente in svariati modi; quando i soggetti sono donne, il ?carattere? diventa equivalente alla bellezza fotografica, con un giudizio maschile di attrazione, un giudizio basato su nozioni di quanto il soggetto femminile sia ben curato, vestito, (man)tenuto, presentato, preparato per la presentazione pubblica. La costruzione della classe e del genere vanno insieme; ?in una donna la bellezza ? qualcosa di totale. ? ci? che in una donna ?sta per? carattere. ? anche, naturalmente una performance; qualcosa di desiderato, disegnato-designato, progettato, ottenuto?.

SF: ?Ci? che ?va bene?, o che ? attraente, in una fotografia ? spesso niente di pi? di quello che illustra una sentita ?naturalezza? della distribuzione ineguale di poteri convenzionalmente concessi a uomini e donne. Dal momento che la fotografia ha fatto tanto per confermare questi stereotipi, pu? ora impegnarsi nel problematizzarli e decostruirli.? Cosa pensi di questa citazione di Susan Sontag su fotografia e genere?

VR: penso che abbia ragione quando parla delle rappresentazioni di potere. Exposures certo contribuisce a confermare stereotipi. Ma le foto cercano pi? di problematizzare e sovvertire gli assetti del potere convenzionale. Il modo in cui li complicano e li destabilizzano ? chiedendosi come io, in quanto donna bianca in Africa, abbia molti tipi di relazioni con il potere, alcune pi? o meno simili a quelle degli uomini bianchi, altre molto diverse. Le foto chiedono come il potere ? espresso ed usato, come ? sentito e sperimentato. Chiedono che cosa significa sovvertire le idee convenzionali di genere e di potere nel contesto delle interazioni bianco-nero.

*

In 'Chocolat, il film francese della regista Claire Denis, cresciuta in Africa Occidentale e figlia di un ufficiale coloniale, racconta la storia di una donna francese bianca che alla fine dei suoi vent?anni torna in Camerun. Rivisitando la casa della sua infanzia, l?avamposto coloniale dove suo padre era capitano nell?esercito francese, la memoria della protagonista ? affollata da immagini di tensione razziale e conflitto coloniale che fanno parte della sua esperienza infantile.

Denis si concentra sull?intima relazione tra alcuni personaggi-chiave e i modi in cui interagiscono in una casa contrassegnata da spazi pubblici e privati separati da criteri razziali. L?umiliante mancanza di privacy per i neri ? illustrata attraverso i modi in cui gli spazi per la servit?, inclusa una doccia all?aperto, sono soggetti allo sguardo coloniale.

Le relazioni di potere sono anche sessualizzate, ad esempio in una sotto-trama sui desideri reciproci vissuti dalla madre e dal domestico, desideri che non sono situabili al di fuori delle relazioni coloniali. A seguito di un teso incontro, la donna fa licenziare il domestico dal marito.

Denis usa pi? le immagini che le parole per articolare come conflitto e desiderio permeano gli spazi razzialmente distinti della casa e dei dintorni. La maggior parte delle scene memorabili del film sono prive di dialogo. Come in Exposures, sono maggiormente la gestualit? e lo sguardo che raccontano visualmente la storia del potere, della possibilit?, del desiderio, del genere e delle posizioni razziali postcoloniali.

SF: un?ultima domanda: perch? hai scelto l?immagine dei preparativi del container per chiudere questo saggio?

VR: perch? rappresentava la fine della mia vita l? e quindi la fine di questo progetto. In quella foto si vede qualcosa di speciale. Si vede la formalit? crollare completamente nel momento dell?ultimo scatto. Per quattro anni quella guardia dell?Ambasciata a mala pena mi aveva rivolto la parola. Era assolutamente formale. Voglio dire, in termini di potere, aveva decisamente un ruolo di servizio nei miei confronti. Tuttavia in quel momento ha potuto mettermi un braccio sulle spalle - altrimenti impensabile - perch? ci? era permesso dal contesto dello scattare la foto. Sono sicura che era consapevole di essere molto pi? potente nel momento in cui io partivo: quello era il suo posto, non il mio.

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'IN TRANSITU' 2007

........Nel cortile del castello, infine, l?intervento pi? lieve e insieme poetico l?ha realizzato Virginia Ryan, che ha chiesto ad alcune donne del paese di ricamare su una federa di lino o cotone una parola che alludesse ad un momento significativo della propria vita: amore, pace, mamma e la data del proprio futuro matrimonio, queste alcune delle parole fissate sulla tela e continuamente sussurrate in sottofondo, quasi a propiziare il sonno della Vergine raffigurata nell?antico attiguo affresco.

Lia Del Venere, Il Segno,Novembre 2007

'DIASPORA'

Achille Bonito Oliva 2008

La fine del ventesimo secolo e del secondo millennio, questa prima decade del terzo, sono dominate dalla tensione stra?bica di un doppio movimento: globalizzazione e tribalizzazione.

Da una parte lo sviluppo tecnologico, la telematica, tende ad unificare ogni tipo di produzione industriale ed artigianale, econo?mia e cultura; una forte interdipendenza condiziona lo sviluppo della societ?, ponendola sotto il segno dell?omologazione ed anche del multiculturalismo. Un trend orizzontale guida le dinamiche produttive ed assottiglia i ten?tativi di differenziazione del prodotto e, conseguentemente, del relativo produttore.

La globalizzazione minaccia il carattere di identit?, elimina il tentativo di personalizzare l'esistenza. Ecco allora la risposta, spesso reazionaria e regressiva, della tribalizzazione, la ripresa dei naziona?lismi, degli integralismi e dei valori di stanzialit?. Al macroevento dello sviluppo tecnologico l'uomo risponde con il microevento della propria esistenza, legato alla resistenza stanziale ed alla nega?zione dei minacciosi microeventi di altri individui limitrofi.

In questa divaricazione si situa la strategia di Virginia Ryan che afferma il diritto del proprio immaginario, sot?tratto alla logica del doppio estremismo: globalizzazione o tribaliz?zazione. Essa adotta la tattica del nomadismo culturale per sot?trarsi alla perversa conseguenza dell'identit? tribale. Nello stesso tempo rivendica una produzione del simbolico contro la merci?ficazione di un'economia ormai globale. In tal modo afferma il diritto alla diaspora, l'attraversamento multiculturale, transnaziona?le e multimediale. Si sottrae dunque ad ogni logica di appar?tenenza attraverso una scelta di fondo che tende a negare il valore dello spazio, habitat e relativa antropologia circoscritta, a favore di un valore di tempo condensato nella forma dell'opera.

Stoicamente Virginia Ryan sceglie liberamente la diaspora, quel tragico destino storico subito da molti popoli a Oriente e a Occi?dente. In tal senso l'opera acquista un valore utopico nel suo signi?ficato etimologico, la preferenza per un non-luogo, un altrove sma?terializzato che non richiede stanzialit? o definitiva occupazione.

Pittura, scultura, fotografia, disegno ed architettura si intrecciano nella produzione di installazioni che possono sostare in qualsiasi spazio, ma senza il pericolo di una totale integrazione. Il nomadismo e l'eclettismo stilistico che regge la forma aiuta l'affermarsi di una progressiva decomposizione quanto ad unit? spaziale del momento produttivo ed unit? temporale di quello contemplativo.

L'opera di Virginia Ryan funziona come un frullatore che crea interagenza tra i diversi linguaggi e smaterializza ogni tradizionale categoria estetica. Essa agisce sul pubblico con la forza estraneante di una realt? in movimento, con la capacit? di affermare la propria mancanza di adesione e consenso.

E carattere di diaspora ? il frutto naturale di una tradizione che corre dalle avanguardie storiche fino alla transavanguardia, la co?scienza di un'autonomia dell'arte che non pu? operare sul principio dell'identificazione. L'arte contemporanea utilizza al meglio il supe?ramento delle barriere tradizionali, per accedere alla rapidit? di percorsi che giocano sul principio di contaminazione. Tale princi?pio opera contro il pericolo dell'omologazione, frutto della globa?lizzazione telematica. Da una parte utilizza l'idea dello sconfina?mento e dell' interagenza culturale e dall'altra afferma il diritto tutto individuale dell'artista di produrre forme improvvise e sorprenden?ti, conseguenti di un immaginario libero da ogni gerarchia.

L'arte in Virginia Ryan opera su un ulteriore livello di decomposizione, in quanto afferma il valore creativo dell'IO contro quello quantitativo del NOI. Si presenta alla contemplazione del pubblico stanziale con le tracce della propria diaspora, i segni di un attraversamento che la rendono positivamente straniera rispetto alla familiarit? delle imma?gini televisive che invadono quotidianamente lo spazio domestico della societ? di massa. La diaspora implica complessit? di molteplici riferimenti, la memoria dei numerosi intrecci che sottendono al nomadismo culturale dell'artista. Complessit? di una forma proget?tata contro la semplificazione spettacolare di immagini bombardate dal piccolo schermo televisivo.

L'ambivalenza dell'opera costituisce il segnale resistenziale di Virginia Ryan contro la realt? che la circonda, la formalizzazione di una ostilit? di un'arte che non vuole svolgere alcun servizio infor?mativo. Vuole anzi interrompere il trend di un universo funzionan?te sul mito dell'informazione.

Eppure Virginia Ryan si pone il problema della comunicazio?ne, necessario riconoscimento dell'apparato telematico che control?la il mondo. Per questo assorbe dentro l'opera la diversit? spuria di linguaggi differenziati, ma la plasma fuori da ogni logica di consumo immediato. Comunicare implica necessariamente l'ado?zione di tecniche e materiali non avulsi dal contesto in cui viviamo. Implica sottoporre il regime della diaspora ad una disciplina capace di sviluppare un contatto con il pubblico. Ecco allora l'arte porsi il problema, dopo tanta diaspora, di una sosta: evitare il pericolo di una astratta globalizzazione, la fruizione internazionale del sistema dell'arte, favorendo una comunicazione bilanciata, fuori da ogni ammiccamento tribale.

Tale ammiccamento implica sempre appartenenza e l'idea di un consumo che intercetta in alcune forme artistiche la ricerca del consenso. Il bilanciamento della forma garantisce all'arte di non diventare puro oggetto d'uso, la possibilit? di conservare un carat?tere di passaggio che segnala un viaggio accompagnato solo da pic?cole soste.

L'arte di Virginia Ryan deve necessariamente ribadire il valore della diaspora, il destino di un inarrestabile movimento ec?cellente, per testimoniare la propria strutturale attitudine, destrut?turante e strabica.

Solo cos? l?artista pu? dimo?strare il credito che d? al tempo surgelandone uno migliore in opere che evidenziano in maniera lampante ed esemplare la fidu?cia nella storia.

Dall?Australia proviene Virginia Ryan che (Nel 2001) intreccia la propria opera con quella degli ?artisti di strada?, di insegne di negozi, del Ghana. A loro ha chiesto l?elaborazione di un?immagine da far coesistere con la propria, frutto di uno scatto fotografico che galleggia costantemente nello spazio offerto dalla pittura. La pittura contemporanea occidentale o africana sembra voler fondere quello che Pessoa chiama ?la precaria rappresentazione del visibile?, dove il precario denota una connotazione positiva corrispondente ad una visione del mondo e dell?arte aperta a valorizzare il particolare e il dettaglio, il relativo e il quotidiano. Virginia Ryan agisce attraverso tutte le complesse modalit? della pittura. Estrapola un?immagine atrui dal panorama del vissuto adottando una sorta di neutralit? che impedisce scelte affettive e la pone nella condizione di assumerla nella propria attenzione isolata dal proprio contesto. Applica dunque inizialmente il procedimento del ready ? made che lavora sullo spaesamento e l?assolitizzazione metafisica del dettaglio. Se la pop-art lasciava prevalere la dura oggettivit? delle cose, nell?opera di Virginia Ryan avviene un fenomeno di coesistenza e di osmosi.

Quotidiano ed esistenzialit? si coniugano in un incessante rapporto di scambio. Una cifra occidentale accompagna questa operazione d?integrazione, l?estrapolazione dell?oggetto non porta alla scomparsa del soggetto ma ne sottolinea la persistenza mediante la cancellazione del suo panorama abitudinario e la formulazione di un diverso contesto. Il contesto di Virginia Ryan ? quello della pittura restituita dall?artista con la citazione, dunque con una memoria culturale che raffredda l?apparente clima vitalistico della cultura africana, di quello stile veloce che sfiora la scena del cinema in quanto riportato e riformulato come una sorta di linguaggio modulare dell?espressivit? soggettiva. Alla citazione di un codice alto si accompagna quella di uno basso, appartenente alla produzione corrente. Qui scatta il corto circuito dell?immagine capace di tenere insieme entrambi i versanti in un felice equilibrio che ci restituisce la precaria rappresentazione del visibile. L?ingrandimento ne feticizza la presenza, rendendola indispensabile e non intercambiabile. Quell?oggetto e non altro. Un ostacolo al puro galleggiamento della pittura che fa da contorno. Non esiste gerarchia tra centro e periferia, Europa o Africa, tra iconograficamente detto e cromaticamente indicibile. Nessuno dei due versanti ? a servizio dell?altro. Tutto funziona per pura associazione e sovrapposizione. Fuori dal principio di dialettica ed a favore di quello di contraddizione. Un gesto di sano arbitrio culturale assiste l?opera di Virginia Ryan, che non drammatizza lo scontro n? lo attenua, semmai lo porta allo stato visibile della possibilit?. Siamo davanti ad una pittura antidogmatica, piena di infiltrazioni culturali e diverse attitudini antropologiche. Poggiata interamente sullo zoccolo duro di un linguaggio effetto di molte stratificazioni. Corre su due versanti dell?oceano Atlantico e di quello indiano, da Duchamp a Warhol, da Richter all?iconografia animistica africana, contaminata dal cinema e dal mito, dalla pop-art e dalla transavanguardia, ma conserva l?identit? di una cultura che mantiene insieme un?idea matrigna e materna della realt?. L?estraneit? dell?oggetto e nello stesso tempo la sua familiarit? ? dovuta alla frequentazione quotidiana dell?universo standardizzato della produzione industriale ma fatta a mano, come le insegne dei negozi.

L?estasi materialistica viene temperata, nella sua coscienza di estraniamento, dalla consapevolezza dell?avanzata omologazione della cultura e della societ? che ha reso questo straniamento un sentimento familiare e quasi giocoso. Dunque Virginia Ryan si muove attraverso realt? culturali molto diverse - dall?Italia all?Egitto, dal Brasile alla Scozia ? costruendo una rete di collaborazioni che segnano il suo percorso nomadico di artista, che proprio nello sradicamento, nella ricerca inesausta di una patria spirituale ha individuato la sorgente profonda della propria pratica creativa. Utilizza tecniche e linguaggi antichi e modernissimi per un?indagine che recentemente ha fermato la sua attenzione sulla realt? dell?Africa occidentale. Virginia Ryan ha cos? costruito un singolare lavoro di ricognizione sulla vita, la storia e la natura del paese africano, dove ha, tra l?altro, realizzato un?importante installazione esposta al museo di Accra (Landing in Accra , 2002) . Di questa impresa coraggiosa e destinata a continue scoperte ed invenzioni, sono traccia significativa trenta fotografie che declinano lo splendore effimero di una tradizione (quella tutta occidentale delle Vanitas) che si confronta con i colori e lo sfarzo delle mitiche terre d?Africa nera. Trenta ritratti a mezzo busto di figure maschili, abitanti del Ghana coperti d?oro, una sorta di sfavillante pantheon di divinit? della terra e della luce ? living go(l)d appunto, le cui icone sono rese ancora pi? straordinarie dalle cornici dorate, anche esse provenienti dal paese africano. Un lavoro, questo della Ryan, che incrocia dunque artigianato e tecnologia per restituire nella sua inesauribile bellezza la necessit? del meticciato.

In questa mostra Virginia Ryan presenta opere organizzate secondo progetti unitari

rispondenti ognuno ad una strategia di avvicinamento a realt? altre e nello stesso tempo di

silenziosa segnalazione di un margine inevitabile di invalicabile distanza. Un vero e proprio

viaggio attraverso la sua opera ? quello che compie Virginia Ryan che parte con ?L?andino in Accra? e finisce con le foto della ?Donna bianca?.

I capisaldi di tale itinerario sono: ?Castaways?, ?Topographies of the Dark?, ?Floating

Wastelands?,?Captive refractions? e ?Living gold?. ?Castaways? ? un progetto che nasce nel 2003 e si prolunga

fino ad oggi, 2000 dipinti di piccolo formato realizzati con materiali raccolti sulle spiagge

attorno ad Accra. I piccoli lavori, dopo un bagno in un colore grigio-oro sembrano frutto

delle onde che si rifrangono attorno al Ghana che trascina anche con s? la memoria di

antiche schiavit?, dello sradicamento, della cupidigia per l?oro.

Quest?opera di grande respiro ha avuto anche un suo slittamento verso una direzione di arte

totale quando il musicologo Steven Feld cre? uno spazio sonoro con elementi acustici

provenienti dal Mar Atlantico .

Cos? ?Goldfield? ? un lavoro che opera sull?accumulo e la moltitudine di oggetti disseminati sul pavimento e accostati tra loro da giallo bagliore dell?oro. Un accumulo variegato di

oggetti diversi, quasi abbandonati in un accostamento inerte frutto di un tempo che corre e

tutto travolge.

?Floating Wasteland? attraverso una tecnica di intreccio tra pittura e fotografia digitale,

presenta immagini che sono il frutto iconografico estratto dall?ambiente Africa. Prevale qui

come un gioco dell?accumulo, una discarica di elementi ammassati nello spazio pittorico,

recintati dalla cornice e tenuti insieme dal collante della pittura.

I sculptural paintings costituiscono un grande affresco di oggetti

quotidiani stipati dentro il recinto della pittura che si intreccia a sua volta con la scultura.

Centinaia di ciabatte arenate sulla costa dell?Africa occidentale convivono nel falso

abbandono di un?opera che una vera e propria ?Topografia del Buio? dominata

cromaticamente dal nero.

Tutto sembra frutto di una catastrofe ecologica, una risacca che ci ha restituito povere

ciabatte provenienti da un mare oleoso. Se le scarpe rimandano al movimento, al felice

nomadismo di una vita attiva, qui queste umili ciabatte sembrano i postumi di una vita gi?

trascorsa e ridotta a puro relitto.

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Stefano Bottini;Corriere dell'Umbria:

Virginia Ryan-la Scultrice dei Contrasti

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0/11/2008

IL MATTINO NAPOLi: Terremotus femminile

Pasquale Esposito

Un ricamo, dieci ricami, per ricordare un anniversario che ha segnato la storia del territorio campano, e la vita di tanta gente. Domenica alle 19, pi? o meno l?ora in cui si scaten? (era domenica anche allora, il 23 novembre 1980) la forza della terra che caus? lutti e danni in Irpinia, in Lucania, nel salernitano, a Napoli, sar? inaugurata a Largo Baracche, ai Quartieri Spagnoli, una singolare mostra - ?Terremotus femminile? - promossa dall?associazione culturale Sabu e curata da Virginia Ryan, l?artista australiana. La Ryan - dopo il progetto ?Intransitu? nel quale ha coinvolto un gruppo di ricamatrici di Muro Leccese - ha raggiunto Napoli dando vita a una seconda tappa del suo progetto: pianificare l?esperienza femminile attraverso la mano, l?occhio e la voce. Insieme alla mostra, infatti, verr? presentato anche un ambiente sonoro curato da Steven Feld. Dopo il ?Terrae motus? di Lucio Amelio, al cui appello risposero i pi? importanti artisti della scena internazionale che realizzarono una serie di opere divenuta un?importante collezione ora alla Reggia di Caserta, arriva questa versione femminile a testimoniare una sensibilit? viva, ventotto anni dopo, di quel triste momento: altre circostanze, altre tecniche, altra statura, ma uguale la voglia di interpretare quel momento. Per sei mesi sono state al lavoro nove donne dei Quartieri, le quali hanno portato a termine, nel luogo (il rifugio anti-aereo di Largo Baracche) che domenica diventa galleria di esposizione, dieci ricami su tessuto, in mostra insieme alle fotografie delle autrici: ?Ogni lavoro - afferma Virginia Ryan - rappresenta un?esperienza avuta da queste donne, che nel presente o anche nel passato hanno vissuto situazioni di difficolt?, o felicit?, o semplice voglia di esprimere la propria fantasia. Io lavoro in collaborazione con Steven Feld, antropologo e musicista, e con gruppi di donne che cuciono, tessono e ricamano le loro storie in risposta ad una particolare idea, emozione, evento. Il mio lavoro riguarda tutto ci? che concerne la memoria, l?identit?, il territorio?. Le artiste sono Anna De Angelis (?Cuore Sacro?), Uga Baldini (?Farfalle?), Laura Bismuto (?Fiori?), Angela Costa (?Forze indomabili?), Cristina Costa (?Volto di Madonna?), Irene Esposito (?Diagramma?), Rosaria Esposito (?Cervello?), Carmela Fusco (?Sole e Luna?), Francesca Ruffo (?Carrozzina? e ?Vincenzomaria?): ?Nove donne per dieci opere che - sottolinea la Ryan - non avevano mai lavorato insieme. Hanno realizzato dieci terremoti interni. Sia io che Feld riteniamo giusto ringraziare Pietro Tatafiore, Massimiliano Esposito e in particolare Giuseppe Ruffo, e cio? l?associazione culturale Sabu, per questa possibilit? di realizzare questo evento cos? singolare?. E che ha il merito di portare attenzione ad un territorio ricco di fermenti culturali, oltre che di problemi sociali e civili. ?Mentre le donne lavoravano dando voce all?autorit? della loro esperienze - ricorda l?antropologo musicista Feld - sopra di noi, in superficie, intorno a noi, il trapano dei lavoratori, il continuo passare dei motorini, i bambini che giocano, il riverberare della vita che prende piede, imprimono nuove vibrazioni acustiche nel tetto e nei muri di un palazzo dove ogni mattone vibra di memorie, di paure, di riparo?. Suggestioni dei Quartieri, suggestioni dell?arte.

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SENTIERO 1 -catalogo 'Il Filo di Arianna' di Marco Testa (FEB 2009)

Passo dopo passo

Piccoli soldati affrontano la vita

Passo dopo passo

Piccoli guerrieri lasciano le proprie orme

Preparando il sentiero del proprio riscatto

Per il mondo.

Scevra da ipocrisie, l?umanit? ? colta da Virginia Ryan, in Child Soldiers, nel suo aspetto infantile, il pi? puro ma anche il pi? fragile. Cos?, le piccole scarpe in terracotta diventano orme su carta: ripetute, calpestate, incrociate, una sull?altra, creano dal nulla un sentiero, quello di una strada battuta da mille piccoli piedi. Orma su orma, lasciando in rilievo la propria impronta che rimane impressa nel tempo, i passi si stratificano, ognuno con la propria storia, ognuno con la propria emozione. Su quel sentiero, battuto da passi reali e da segni, che dei primi sono una razionale astrazione, passato e futuro si connettono in un presente tangibile, a rilievo. Le vie reali sono anche percorsi emotivi, che suggeriscono un modo per affrontare la vita: i piccoli passi, con tenacia, divengono lunghi sentieri interminabili, le vie lastricate degli adulti, che portano verso un futuro ignoto. Virginia Ryan si racconta: il suo viaggio ? parte di un percorso di ricerca espressiva, attuato come una Diaspora1, carico di contaminazioni fra i continenti. I suoi passi, fatti per il mondo, hanno lasciato nel mondo le sue orme e il mondo ha lasciato dentro di Lei, dentro la sua ricerca artistica, l?orma pi? preziosa: la conoscenza.

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EXIBART:MOSTRA A SPAZIO OTTAGONI 09

Profumo di mare. Il suono delle onde: lunghe pause fra andate e ritorni. E quei frammenti di umanità che l?oceano porta con sé. Un dare e avere che parla di storie vissute..

Sono costruzioni mnemoniche che partono da lontano - affiorano, poi s?insinuano nel presente - quelle che affascinano Virginia Ryan (Melbourne, 1956; vive a Trevi, Perugia, e Accra). L?artista, viaggiatrice e scrittrice australiana (ma è cittadina italiana dal 1981) ha camminato molte volte per le spiagge immense del Ghana - Pram Pram, Jamestown, Labadi, Anomabo - affondando i piedi nella sabbia impalpabile.

Passeggiate alla scoperta di tesori di ?antropologia contemporanea?, come li definisce Ryan. Quei frammenti di ciabatte in plastica, pettini, forchette, bottiglie, bambole, lembi di tessuto, reti di pescatori, conchiglie, legno... Sono viaggiatori disillusi, eroici sopravvissuti di un?epoca piena di contraddizioni.

Oggetti che, viaggiando, si caricano di altri significati. La metamorfosi comincia tra i flutti dell?oceano per continuare sulla battigia, nello studio di Accra e approdare, infine, nei luoghi dell?arte: prima bagnati e poi asciugati al sole, raccolti, collezionati, rielaborati, questi pezzi acquistano - per mano dell?artista - un?identità nuova.

Il corpus di Castaways è costituito da duemila moduli 26x30. Un work in progress iniziato nel 2003 e destinato a proseguire, a breve, in Costa d?Avorio, e di cui lo Spaziottagoni presenta una selezione concepita come site specific.

Rispetto alle precedenti esposizioni di Accra, Manchester e Spoleto, questa romana offre ulteriori spunti di riflessione, attraverso le due elaborazioni fotografiche della serie Elmina (2004-07), oltre ad African Cube e altre opere di Topographies of the Dark (2008) e, per la prima volta, Sentiero (2009).

I suoni dell?Africa, nell?interpretazione ed elaborazione dell?antropologo e musicologo americano Steven Feld - autore anche di Anomabo Shoreline e del video Where water touches land (2007) - si diffondono negli ambienti della galleria, coinvolgendo emotivamente lo spettatore.

La luce calda dei tramonti tropicali entra negli assemblaggi di Castaways, resi immortali dalle tracce dorate che illuminano la vernice bianca che avvolge ogni pezzo, liberandolo - proprio attraverso quest??atto di purificazione? - dai limiti della riconoscibilità.

È il riaffiorare di una memoria collettiva che non può essere cancellata, come quella a cui rimanda Elmina. Volti di uomini che si stagliano sullo scenario dell?omonima fortezza ghanese, sito storico che dal 1482 - quando fu edificata dai portoghesi - fino al 1871 fu snodo fondamentale sulla rotta della tratta degli schiavi.

Un passato indelebile, quindi, che si srotola come in Sentiero, dove Virginia Ryan disegna una texture fitta di suole che s?incastrano, passo dopo passo, ed evocano la forma del sampietrino. In Topographies of the Dark, invece, è il nero a inghiottire la materia, a omologare l?insieme: pezzi di sandali lambiti dal catrame, sfiorati dai granelli di sabbia. Echi di storie lontane e di realtà vicine, nei vortici della corrente.

manuela de leonardis

mostra visitata il 30 settembre 2009

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Valeria s.Lombardi , November 2009

Un'aura antica, ancestrale sembra pervadere sempre nelle opere artistiche di Virginia Ryan.

Un'artista certamente poliedrica, quasi inafferrabile che si e' spinta sempre in là per cercare e ricercare e poi soprattutto far conoscere.

La sua arte indisciplinare appare struggevolmente avvolta da una misteriosa raffinatezza. Ricca di spessore che vanta da accenni minimali ad opere concretamente concettuali.

Un sapere che sembra un vissuto personale carico pero' di molti altri dolori, sguardi che si irradiano a lei, senza paura a manifestare il loro vissuto terreno.

Un'arte certamente data da un'interiore passione anche per questi buii anfratti che la vita ci riserva.

Un costante sguardo, attento non solo sulle differenze sociali, cercando di smussarle facendo vedere

le affinità e le distanze. Singolare e magnifico per la prorompente emanazione del consumistico benessere avvolto da un'inquieto superficialismo e' l' istallazione?Golden field-Campo dorato?che tenacemente proietta l'avidità umana a dispetto dell'oggetto stesso, magari costituito da un duro lavoro, e poi imancabilmente usurato in breve tempo, oggetti che però possiedono invece una loro vita interna e che riescono cosi' magicalmente ad essere riguardati, bramati e desiderati se vengono

dipinti dalla classica cromia che rassume non solo il potere ed il desiderio di possesso ovvero:l'oro.

Facendo notare quanto l'uomo consumistico e' divenuto corrotto, facilmente ingannabile.

Una scultura -istallazione molto toccante e' rappresentata in'?Child Soldiers 1998-2008?, dove pervade il nostro silenzio, la nostra impotenza difronte ai mali e alle guerre del Mondo. Virginia Ryan puo' esplicare in quest'opera una sola guerra, magari vissuta o raccontata,ma decisamente quante di queste guerre abbiamo già assistito o solo letto, quante volte ormai le nostre retine si sono fissate su immagini di accastamenti di sapore concettuale ad esempio nelle spolizioni perpetuate dai nazisti nei campi di concentramento agli ebrei, eppure il tempo e' passato, portandosi con se' atroci lutti e ferite mai risanate, ma cio' che e' piu' sordido e triste e' come la storia si continui a ripetere, quasi fosse cieca e sorda e quindi doppiamente non solo servono, ma ci devono essere persone, artisti com'e' ad esempio Virginia Ryan che dedicano la loro vita a rappresentare, attraverso la sua intelligenza, la sua preparazione artistica cio' che si vuole sempre tenere distante, taciuto, cercando con piccoli tasselli di vita di conferire una conoscenza, un progetto, un'azione che non sia solo fine a se' stessa. Queste sono persone che possiedono un dono unico: attraverso di loro fanno parlare, vivere gli altri. Questa e' anche appunto Virginia Ryan.

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VOLTAR come mostra aggiunta al 14 Bienal de Curitiba 2019

“Voltar”: le narrazioni del “tornare”, o del senso del “nostos” in Virginia Ryan.

“Il viaggio non finisce mai…

Bisogna vedere quel che non si è visto, vedere di nuovo quel che si è già visto… 

Bisogna ritornare sui passi già dati, per ripeterli, e per tracciarvi a fianco nuovi cammini. 

Bisogna ricominciare il viaggio. Sempre.”

(José Saramago, Viaggio in Portogallo)

Se ogni viaggio ha in sé un ritorno, il “nostos” è sempre anche un “sentimento del Tempo”, l’intimità del tornare ad incontrare un “se stesso” che ha abitato un tempo altro e misurare la distanza tra l’immagine di sé conservata nella memoria – e di cui foto, lettere, documenti rimandano solo un simulacro – e il sé presente e attuale: misurare la distanza tra un tempo “potenziale” e un tempo “in atto”, che quell’attesa di tempo futuro ha realizzato o deluso o, talvolta, messo in scacco. Una lunga e intensa “narrazione” di viaggi e di ritorni - interpuntata di soste, di incontri, di  volti, di storie, di dialoghi, di memorie – e un raccogliere disperse tracce e mettere in salvo disgregate identità: è in questo il senso del multiforme viaggio di ricerca di Virginia Ryan – australiana di nascita, italiana di adozione, umbra di residenza, abitante del mondo per necessità e vocazione.Con la mente, lo sguardo e l’emozione portati sempre dall’interno di sé – dal proprio vissuto di artista, donna, bianca, colta, indipendente – al vissuto degli altri e delle altre, di uomini e donne, ma anche di culture, paesaggi, città, dominati, violentati, dispersi, negati, ma infine resistenti nella loro non vinta vitalità. Per riannodare fili, ritessere trame, ricostruire identità e storie, riconoscere la comune condizione umana in un progetto condiviso, cui forse solo il linguaggio dell’arte ha la forza di dare voce.Se ogni viaggio ha in sé un ritorno, il “nostos” è sempre anche un “sentimento dell’Altrove”. E sono il “Tempo” e “l’Altrove” a costituire – nell’insieme coerente dei materiali di questa installazione - il nucleo fondante della narrazione del “Voltar” di Virginia Ryan per Storie Contemporanee, narrazione dei legami possibili tra i tanti “altrove” abitati da volti, da sguardi, da emozioni, da storie individuali e collettive: oggi, Curitiba e Roma.

Anna Cochetti Roma Ottobre 2019

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